Gli atti del Santo e la tradizione

Alcuni santi di nome Alberto sono stelle di prima grandezza nel  firmamento della Chiesa. Domina su tutti per elevatezza d’ingegno Alberto Magno. Di poco anteriore è Sant’Alberto di Butrio.

Con tutta probabilità dovettero esistere in antico gli Atti  della sua vita come da quattro secoli prima esistevano per San Colombano. Infatti Giona di Susa monaco  di Bobbio, entrato nel convento nel 618, tre anni dopo la morte del fondatore, e divenuto segretario e confidente di Attala e Bertulfo immediati successori, ci lascò con la biografia di san Colombano uno dei più insigni monumenti del secolo VII.

Non è pensabile che sant’Alberto, al quale pochi anni dalla morte viene dedicata una chiesa, non abbia trovato un monaco premuroso di tramandarne le memorie.

Niente purtroppo è giunto a noi di quella presumibile biografia ancora tutta fragrante di impressioni e di ricordi personali.

Ma la prova d’un esistenza della raccolta degli Atti del Santo ci viene indirettamente dalla tradizione che ha un carattere di veridicità e di serietà pur affondando le radici negli abissi insondabili del tempo.

La più antica tradizione scritta su s. Alberto è contenuta in una pubblicazione apparsa nel 1613 a Milano e dovuta a un religioso dei Servi di Maria P. Filippo Ferrari di Alessandria.

In un suo “ Catalogo dei Santi” alla data 5 settembre traccia in poche righe la biografia di Sant’Alberto confessore: “ Alpertus monacus et sacerdos apud Cecimam agri derthonensis pagum vitam duxisse traditur.

Egli accenna alla mancanza degli Atti, ma segnala l’esistenza di un affresco della chiesa sotto il quale figura questa frase: “ Qualiter S. Alpertus cum esset ad mensam papae in vinum convertit.

L’affresco di Sant’Alberto di grande valore biografico ci riporta indietro di altri due secoli rispetto alla tradizione raccolta da P. Ferrari, ma siamo ancora lontani di 400 anni dall’epoca del Santo che è il XI secolo.

L’immensa lacuna tra i dati storici forniti dall’affresco e il periodo di fondazione del monastero cercheremo però di colmarla con alcune frammentarie rivelazioni da documenti d’archivio. Sono pagliuzze d’oro rintracciabili nella sabbia di un deserto, ma preziosissime per la loro rarità

Sarebbe stato lecito attendersi qualche utile indicazione dalle lezioni dell’Ufficio proprio di S. Alberto che almeno fino al 1568 era obbligatorio per tutta la diocesi, mentre poi cadde in disuso. Ma di esso non ci sono pervenute che due antifone, probabilmente ignorate dal Ferrari e che non mancheremo d’illustrare a suo tempo.

Non c’è che da interrogare la tradizione che riflette certamente documentazioni scritte a noi ignote, come la luce del sole dopo il tramonto investe ancora le alte nubi di tinte smaglianti. E’ difficile sceverare in essa quanto potrebbe esserci di leggendario; però nelle tradizioni vigono delle leggi di conservazione che difficilmente si possono violare; e dove esse non urtano palesemente la storia è buona regola custodirle.

La tradizione su Sant’Alberto non si abbandona a narrazioni ampollose di sospetta derivazione; è contenuta in limiti più che ragionevoli, e questo giova alla causa della autenticità

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