Padre Mariano parla di Frate Ave Maria

Pace e bene a tutti!

In una lettera scritta non a me, ma ad una nonna, e più di 30 anni fa, ho letto queste curiose parole: “Vedete  cara nonna, io sono il più ignorante di tutti gli uomini della terra; tutti sanno mille cose, ed io so una cosa sola: so soltanto essere felice. Tutti posseggono più oggetti, io invece non posseggo che una cosa: la vera felicità.

Ed allora è il caso di domandarci: Chi è che scriveva, più di 30 anni fa ad una nonna queste parole così rare nel vocabolario delle lettere umane? Era un eremita cieco, che è morto nel 1964, la cui storia è più bella che un bel romanzo. Per questo ve la voglio raccontare. Ascoltatemi.

Dunque, era il primo di cinque fratelli di una modesta famiglia di contadini liguri: CESARE PISANO era un giovane buono, gene­roso, ma vivacissimo. Ed un brutto giorno (un bel giorno per lui, ma noi umanamente diciamo: un brutto giorno), scherzando con un suo coetaneo che teneva in mano un fucile (il solito male­detto fucile, che si crede scarico e che invece era carico), gli dice così con un tono di sfida: “Spara! Spara! Su spara!” E l’amico spara. Il colpo parte e gli occhi se ne vanno per sempre.

 

Cesare è cieco! Tragedia indescrivibile per i familiari e soprattutto per lui. Pensate: a 12 anni non vederci più! E nel suo cuore di adolescente si alternano crisi di profonda disperazione, di ribellio­ne, di bestemmia, mentre lo ricoverano in un Istituto per ciechi a Genova, dove rimarrà per 7 anni, per ricevervi un’assistenza ade­guata ed una educazione ed istruzione adeguata alla sua dolorosa menomazione.

Proprio in quell’Istituto c’è una buona suora, suor Teresa, la quale, con materno affetto, sta vicino a questo adolescente dram­maticamente sconvolto per questa tragedia nei primi anni della vita e riesce, dolcemente, lentamente, gradatamente a smorzare quel­l’astio, quel rancore contro la disgrazia, non solo, ma riesce un giorno anche a vedere di nuovo il sorriso sul volto di quel ragazzo e si sente chiedere con grande sorpresa: ‘Sorella, posso io aspirare a consacrarmi un giorno al Signore?”.

Ecco, in quel cuore erano subentrate due realtà, due certezze: una, la rassegnazione cristiana, non soltanto il far di necessità virtù ma vera, piena rassegnazione cristiana, per quella che era stata la volontà di Dio, che aveva permesso questa sua cecità; e contem­poraneamente, superiore a questa rassegnazione, una gioia calda, sincera, piena; gioia per aver scoperto in questa stessa disgrazia, una occasione per lui provvidenziale per consacrarsi al Signore.

Questa gioia che si trasformerà poi in letizia, in felicità come diceva lui non tramonterà più per lui, lo accompagnerà fino al letto di morte, nonostante che egli abbia dovuto passare attraverso prove innumerevoli, dolori inenarrabili. La sua stessa salute, sem­pre cagionevole, è stata un cilicio terribile per tutta la sua vita, oltre la cecità, s’intende. Ma nonostante questo, quella felicità non lo ha mai abbandonato.

Ecco, decisivo per il suo spirito è stato l’incontro con Don Orio­ne. Questo grande apostolo della carità, illuminato da Dio, illuminò lo spirito di Cesare, facendogli capire quello che la Provvidenza aveva preparato per lui. Don Orione è il santo della Provvidenza; e vide benissimo che in quel giovane di ormai vent’anni, i segni erano certi di una vocazione religiosa e lo accolse benevolmente nella sua fiorente Famiglia religiosa, tutta dedita ad opere di carità; erano i primi anni proprio dell’attività di Don Orione. E stando vicino a questo giovane, si accorse lentamente che egli aveva una propensione accentuata alla ritiratezza (forse dovuto anche al suo male, alla cecità), al raccoglimento, al silenzio, alla preghiera, alla contemplazione; ed allora gli propose, ed egli accet­tò, e lo aiutò a realizzare un’idea nuova.

In poche parole, dopo qualche tempo, il nostro Cesare diventa Eremita con il nome di FRATE AVE MARIA, fra’ Ave Maria. Questo nome potrà sorprendere qualcuno, ma non chi conosce la pietà mariana di Don Orione, che faceva tutto nel nome della Madonna e diceva ai suoi: “Dite tante Ave Maria, perché ogni volta che dite una Ave Maria, si accende una nuova stella in cielo!”. Caro Don Orione! Quanto amava la Madonna!

E l’amava altrettanto anche il giovane Cesare. Eremita!… Una parola! E dove stanno gli eremi? Oggi purtroppo stanno scomparen­do gli eremi, perché sono luoghi (è vero, sono e potrebbero essere, devono essere) fortilizi dello spirito, se non altro richiamo ai valori spirituali. Oggi stanno scomparendo perché sono soffocati da quel­la che è la tumultuante invadenza dei motori delle macchine; non c’è più un luogo solitario, oggi, grazie alla macchina.

Don Orione aveva però ben tre eremi a disposizione e in tutti e tre soggiornò; in due meno a lungo (meno a lungo in Sicilia e meno a lungo nel Soratte qui nel Lazio), ma più a lungo in quello di S. Alberto di Butrio in Vai di Staffora, in provincia di Pavia. Era un eremo abbandonato da tanto tempo. Don Orione l’aveva preso, l’aveva fatto restaurare e lo, non dico riempì, ma lo popolò di alcuni eremiti, tutti quanti ciechi, come il nostro Frate Ave Maria.

Ed era bello vedere i turisti… I turisti amano in modo eccezio­nale questi luoghi, queste tappe dello spirito, questi silenzi improv­visi nel tumulto della loro vita settimanale.

I turisti si arrampicavano, andavano sovente a cercare di Frate Ave Maria nell’eremo e, sempre che andavano, lo trovavano immer­so in preghiera, in qualunque ora del giorno; o in qualche angolo buio della chiesa, oppure vicino all’ urna di S. Alberto Eremita, che è appunto il patrono di quella piccola Chiesa.

Il più interessante era quando i visitatori, dopo qualche preghie­ra (perché non si può non pregare, quando si vede qualcuno che prega sul serio e che gode di pregare), dopo qualche istante si facevano coraggio, rompevano il silenzio, si avvicinavano a lui e lo interrogavano. Ed egli, come se gli avessero fatto il regalo più grande (che anima bella!), sapeva lasciare la dolcezza della sua contemplazione per far del bene a qualcuno e rispondeva, e li accoglieva con tanta benevolenza e spiegava la storia dell’eremo.

Lì prendevano una boccata d’aria, di sole ed anche dell’acqua del pozzo (di cui raccontavano tanti prodigi fatti da lui per l’acqua di quel pozzo) e potevano finalmente vedere alla luce del sole il volto profetico, segnato dai dolori, dalle sofferenze, dalla cecità, dai di­giuni, dalle penitenze, ma coperto da un nuovo splendore di felicità inenarrabile.

È testimonianza universale, di tutti quelli che lo hanno visitato nei quasi quarant’anni di eremitaggio; tutti quanti concludevano così: ‘Finalmente abbiamo veduto un uomo felice sulla terra”! Tutti dicevano così. Ma che cos’è che rendeva così felice un uomo sem­pre infermo e che, umanamente parlando, nulla possedeva? La risposta la dava a tutti il suo sguardo cieco, eppur profetico; sempre rivolto verso l’alto, verso il cielo. Non che Frate Ave Maria trascurasse le cose della terra o i dolori degli uomini; anche lui, uomo, doveva pensare alle cose della terra e la sua preghiera continua era soprattutto per gli uomini che sof­frono. Ma le cose della terra e le sofferenze degli uomini, le vedeva con le pupille della sua anima, tutte nella luce del cielo e perciò l’anima sua esultava ed egli era veramente felice di essere così, privo della sua vista materiale, ma più disposto a vedere le cose spirituali.

Era genuina e profonda la sua felicità e, scendendo dall’eremo, i visitatori portavano con sé nel cuore il ricordo e la certezza di avere avvicinato un santo, ma un santo felice. E questa testimonianza diventò, direi così, esultante e trionfante nel giorno della sua morte, il 21 gennaio 1964. Allora, da tutte le parti, con tutti i mezzi, accorsero per baciare quella salma, per venerarla e ringraziare quell’uomo così singolare, che non aveva fatto nessuna predica, non aveva regalato nessun buono del tesoro a quelli che erano andati a trovarlo, ma che aveva ottenuto dal Signore, con le sue preghiere, tante grazie, tanti prodigi.

Anche per questa riconoscenza andavano, ma soprattutto perché avevano ricevuto da lui, che era un uomo come loro e più soffe­rente di molti di loro, il dono di una testimonianza impressionante di felicità.

Insomma, era stato un infelice che era, invece, felice.

E quindi egli non raccontava delle menzogne quando, scrivendo alla nonna, continuava così: “Io altro desiderio non ho, se non di adempiere sempre e ovunque la santissima volontà di Dio!”.

Questo era stato il fulcro della sua conversione: adagiarsi, come una foglia nel letto di un torrente impetuoso, nella volontà di Dio. ‘Questo è il desiderio che mi rende felice ed io credo che è infelice colui che non ha questo desiderio di far la volontà di Dio!Che meraviglia sanno fare il Signore e la Santa Madonna! (sen­tite qui la terminologia abituale di Don Orione). Vi sono delle per­sone che non credono nei miracoli: ecco uno stupendo miracolo che compie la santissima Madonna ai giorni nostri, un miracolo stragrande e continuo: un cieco, grande peccatore, perdonato da Dio, in abito da penitente, chiuso tra le quattro mura di un eremo,che è felice, tanto fèlice, da avere compassione dei più ricchi, dei più potenti, dei più sapienti di questo mondo, ma che non hanno fède, ma che non hanno amor di Dio.

Questo cieco, questo ammalato, questo solitario, è felice; di una fèlicità non egoista, perché piange per l’infelicità altrui e prega il suo Dio e la sua Madre celeste affinché il numero degli infelici sia ridotto a più pochi che è possibile.

Caro Frate Ave Maria! Quanto è bella questa conclusione! E’ il programma di ogni apostolo cristiano: fare sì che il numero degli infèlici sia ridotto a più pochi che possibile! Pace e bene a tutti

Trasmissione televisiva “La Posta di Padre Mariano” del 30 maggio 1967

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *